Piazze, tribune, teatri del Mediterraneo: dalla qualità dello spazio pubblico alla qualità della politica.

Questa breve riflessione parte dalla città. La città come invenzione specifica della cultura mediterranea. Sono i paesi che si affacciano sul mediterraneo che hanno infatti creato la città non come semplice aggregazione di famiglie o tribù, e nemmeno come frammento, cellula, del regno o dell'impero.

Primavera-araba Da noi la città viene prima dello stato, ed ha caratteristiche precise: è l'unità superiore che raccoglie tutti i cittadini. Unità, singolare, perciò ogni città ha i suoi monumenti, a prescindere dalla grandezza della città stessa. “Ogn'om che al mondo vene/ nasce primeramente ai suoi e al suo Comune”, diceva Brunetto Latini, maestro di Dante, sottolineando quindi che l'appartenenza al Comune era forte quanto quella alla famiglia.

Il simbolo più chiaro della inclusività totale della città sono gli spazi pubblici nei quali si svolgevano le attività comunitarie identificative: lo spazio dell'assemblea politica, del teatro, del mercato, dell'assemblea giudiziaria. Una rapidissima carrellata dell'urbanistica greca ci mostrerebbe l'inscindibile fusione, diciamo la costante complementarietà, dello spazio scenico e di quello dell'assemblea. E l'opinione oggi più diffusa è che Ippodamo, il più famoso urbanista dell'antichità, piuttosto che un architetto fosse un pensatore politico, colui che per primo avviò una riflessione sul rapporto tra spazio pubblico e privato, e sull'importanza della forma di entrambe nella definizione del nostro modello di vita.

Diciamo che la città mediterranea ha dei luoghi in cui si riconoscono e definiscono le forme del suo essere comunità, le forme specifiche del suo essere e dei dispositivi comunitari che ne reggono la vita. La circolarità della piazza, ma soprattutto la contemporaneità della presenza e della discussione, sono già presenti nei discorsi omerici, dove si confrontano i capi. Il livello di definizione può riguardare la composizione dell'assemblea, ma non le procedure. Il teatro è l'altro luogo in cui la città mediterranea fissa il suo statuto, perchè la polis si definisce attraverso alcuni elementi:

la forza dell'istituzione (delibera e forma di governo);

l'identità culturale (il teatro).

La piazza e il teatro diventano il luogo in cui la polis si materializza, perchè il momento della “comunità” costituisce la stessa identità dello stato. Non esiste una struttura impersonale dello stato, quindi non vi è distinzione tra privato e pubblico, ma continuità,  una prova è offerta dalle tragedie, teatralizzazione del dibattito pubblico, che hanno spessissimo al centro i temi della famiglia, dell'appartenenza sessuale, della parentela. In questa forma di vita che è la città si costruisce quel sistema che chiamiamo democrazia.

Quindi si può  cogliere il nesso tra gli spazi pubblici e la sostanza della politica.  La centralità del luogo pubblico e la sua struttura organizzata alla funzione del dibattito, mette l'accento sulla centralità del momento deliberativo inteso come discussione, diciamo proprio del momento di formazione, sia nel senso di formazione dell'opinione, quindi di formazione in termini pedagogici, sia poi di formazione della decisione. La democrazia, in pratica, può sussistere solo se si condivide l'assunto della trasformazione dell'uomo attraverso l'altro, che da secoli è alla base della nostra cultura e della nostra filosofia. Non si capirebbe altrimenti il dialogo socratico, l'idea che esiste un'alterità irriducibile ma anche indispensabile, quello che LEVINAS ha detto poi parlando dell'altro e del suo volto. La democrazia esiste perchè la decisione avviene alla fine di un dibattito, anzi proprio perchè è possibile un dibattito. Non è il principio della votazione, quindi il momento deliberativo, a costituire l'essenza del sistema democrtico, ma il fatto che chiunque, partecipando al dibattito, partecipa alla formazione della deliberazione, e vi partecipa a prescindere dall'esito finale del voto, vi partecipa perchè partecipando al dibattito contribuisce a modellare il pensiero collettivo. 

Un tema da approfondire sarebbe, in questa prospettiva, quello della partecipazione femminile alla democrazia, che si intreccia anch'esso con l'organizzazione degli spazi, e con il valore della casa come spazio di esclusione, anziché di inclusione.

A Roma il teatro è sostituito da manifestazioni artistiche, e dalla tribuna del foro. Dobbiamo ricordare che nei tribunali le giurie erano popolari, quindi era un vero e proprio spettacolo, la giuria un pubblico, ed anche in questo caso l'elemento “processuale” (il dibattito e la performatività della parola) è fondamentale.

A Roma i tribunali erano composti da giurie popolari, fino al'80 a.c., circa. Diciamo che solo all'epoca di Silla i tribunali popolari erano stati sostituiti interamente dalle quaestiones perpetuae, cioè da tribunali fissi.

Si può vedere quindi che la comunità mediterranea ha alcune caratteristiche:

si riunisce, e dalla sua complessità, dall'articolazione di un processo, trae la forza della decisione, l'autorità. Quindi la legittimità è tanto superiore quanto più efficace è stato il momento del confronto.

Si osserva, si ragiona, si racconta, ed anche questo lo fa in forme collettive. Ad esempio dobbiamo aspettare l'ellenismo per avere forme di rappresentazione individuale dei cittadini.

La stratificazione storica ci permette facilmente di vedere come la forma piazza abbia resistito nei secoli ma perdendo totalmente la funzionalità del dibattito, attraverso alcuni cambiamenti decisivi. Il più chiaro, l'orientamento, cioè la piazza che non è là per se, ma è in funzione di (una chiesa, un palazzo) per cui il suo valore formativo decade, diviene transito, luogo d'accumulo.

Le funzioni si spostano al chiuso, perdendo il valore di permeabilità tra spazio privato e pubblico.

Schiacciamo ora il ragionamento sul presente e sulle forme di partecipazione e di democrazia odierne. Internet è un potenziamento delle nostre potenzialità, davvero potrebbe essere allora l'esaltazione del modello classico di democrazia e partecipazione, perchè consente una moltiplicazione quasi illimitata della partecipazione. Immaginiamo se internet costituisse una enorme tribuna, senza limiti di spazio ed anche con la possibilità di una asincronia.

Ma a questo punto la domanda è: la democrazia, una comunità, possono fare a meno dell'elemento fisico, del luogo in cui il volto dell'altro è presente, mi è presente?

Per riflettere su questo punto voglio analizzare le recenti “rivoluzioni” avvenute nei paesi del Mediterraneo, che si sarebbero propagate grazie all'uso dei social network.

intellettuali Durante quelle rivolte i social network hanno avuto la funzione straordinaria di propagare il racconto di quanto accadeva e di “convocare” le assemblee, i flash mob, gli scioperi. Ecco, se dovessimo usare le funzioni tradizionali, i social hanno svolto piuttosto la funzione del teatro, cioè quella della rappresentazione. Ma non hanno potuto in alcun modo sostituire né l'elemento della formazione della volontà democratica, né quello della identità rituale. La prova più esplicita è la storia stessa, l'esito, di quei movimenti spontanei, che dopo i momenti di grande mobilitazione collettiva, che hanno portato al rovesciamento di dittature anche apparentemente solide, quando si sono misurate con il voto, il più tradizionale e democratico degli strumenti, hanno portato al potere partiti integralisti e illiberali. Come è possibile? A mio parere questo dimostra che la forza della comunicazione via internet si può limitare alla “convocazione” e alla “provocazione”, ma non può diventare mai vero esercizio della politica, quindi della democrazia.

E questa idea può essere approfondita grazie agli studi recenti di Judith Butler sulla performatività della parola. Partendo dallo studio sugli speech hate la Butler ci porta a riflettere sulla forza che oggi può assumere la parola.

Fuori da un contesto di confronto fisico degli uomini, la parola accentua il suo impatto violento, ma perde la sua caapcità di trasformazione e formazione del pensiero.

Viviamo forse un momento in cui si esprime una tensione fortissima:

il bisogno di essere comunità e l'opportunità di essere crowd, folla individualista, folla indistinta con l'illusione della soggettività.

Il soggetto, così convocato, appartiene ad un “popolo” che è piuttosto un pubblico, e così siamo classicamente nello spazio del populismo. La rete crea un'illusione o realtà di partecipazione immediata. La disintermediazione demolisce la politica (Ilvo Diamanti, nel suo recente Democrazia Ibrida, ha analizzato benissimo questo fenomeno). Allo stesso tempo avviene una moltiplicazione delle identità, o delle identità possibili che impedisce non solo la formazione di qualunque “coscienza di classe”, ma perfino la possibilità di riconoscere la propria esigenza di conflitto all'interno di un orizzonte comunitario, sociale, quindi politico.

In tutto questo ragionamento andrebbe inserito il tema della sacralizzazione dell'identità, cioè dell'utilizzo delle categorie del sacro per rimarginare il vulnus che la religione cattolica ha inferto alla coscienza politica nei secoli scorsi.

Da dove può partire una ricostruzione della politica? Dal ruolo della parola, certamente, e della comunità, e per entrambe possono essere decisivi gli intellettuali, come aveva perfettamente individuato Pasolini, ma come ci dimostrarono le trasformazioni del 1989 nei paesi dell'est, con  personaggi del calibro di Vaclav Havel, e come dimostrano le trasformazioni in corso in america latina, dove gli scrittori ed i poeti non hanno mai perso la funzione di rappresentazione dei popoli.

se ha bisogno di ulteriori informazioni, sentiti libero di contattarmi